Lo impari al liceo di solito, alle origini dell’esistenzialismo europeo c’è Kierkegaard, il quale riconosce un avversario in Hegel, che alla singolarità antepone il genere. Per Kierkegaard l’umano continua a chiedere che il singolo sia distinguibile e che l’individualità non anneghi nell’indifferenza del generale, non sia azzerata nell’Assoluto.
Per la stessa ragione, nel suo Timore e tremore osserva come coerentemente Hegel consideri la determinazione dell’essere umano, come individuo di fronte al generale, una manifestazione malefica. Il male dell’uomo che riafferma la propria individualità di fronte all’etica, al grande meccanismo entro al quale invece dovrebbe perdersi, sacrificando sé stesso. Su un altro piano. Il movimento che porta l’individuo a superare il generale sospende il dominio della razionalità e pare sconfinare nell’assurdo. E se c’è un paradosso che sfugge alla mediazione della ragione, è quello della vicenda biblica di Abramo e del figlio Isacco. Genesi 22, 1-18.
Si sentono i passi di Abramo e più leggeri del figlio Isacco, tra sabbia e piccole pietre frantumate sotto i sandali del vecchio padre, che procede con gli occhi bassi, lanciando ogni tanto occhiate verso l’alto. Pochi arsi cespugli. Il cielo tra il grigio e il ceruleo, stabilmente indeciso. Abramo è solo e la presenza sperduta di Isacco non può che farlo sentire più solo. Si era alzato di buon mattino e aveva salutato la moglie Sara per dirigersi verso la montagna di Moriah, per compiere il sacrificio che Dio gli aveva chiesto, quello del figlio.
Da quand’ero bambino mi chiedo il senso di questa vicenda e come sia possibile giustificare ciò che Abramo intende fare. Facile chiederselo. Come può un padre accettare di andare a sacrificare il proprio e unico figlio? Kierkegaard è consapevole che se giudicassimo Abramo appellandoci alle nozioni etiche condivise dovremmo considerarlo un potenziale assassino.
Per Elie Wiesel l’akedà, legatura, la prova del sacrificio di Isacco, servirebbe a Dio per aprire gli occhi di Abramo rispetto alla crudele pratica pagana del sacrificio di bambini agli dei. Per Kierkegaard non sembra così importante sapere il motivo per il quale Dio decide di mettere alla prova Abramo in questo modo, gli interessa come costui accetti di sospendere il giudizio per entrare in un cono d’ombra, fragile, prossimo al deragliamento, ma intimamente fiducioso. L’oscillazione del dubbio lo fa barcollare, ma Abramo è chiamato a oltrepassare ogni consapevolezza acquisita.
Anche il cristianesimo inteso nella sua dimensione codificata impone delle regole da rispettare, così come il Dio di Abramo, e sono anch’esse “il generale”, per esempio quando c’invita ad amare il nostro prossimo e nel fare questo non stabiliamo una relazione con Dio, ma riconosciamo una norma etica che attorno a noi molti riconoscono.
Nella relazione con la sommità subentra l’incomprensibile, l’ulteriore e si ha l’impressione di un rovesciamento nell’assurdo, nell’apparentemente insensato. “Eccomi!”, aveva risposto, colmando con una parola la distanza, riconoscendo il nesso. Poi Abramo è costretto a mettersi in marcia incatenando pensieri senza sbocco, a ogni singolo passo.
La chiamata lacera la rete di abitudini consolidate che chiamiamo etica, il generale al quale è giustificato adeguarsi ogni giorno, fino a che tutto questo non è messo tra parentesi dall’irrompere della realtà, che non può ridursi al fattore necessario e non sufficiente dell’etica.
Tutto pare assurdo, ma non è la realtà a essere assurda, bensì la pretesa che forse è anche di Abramo di provare a coglierla nella sua interezza, al fine di capirci subito qualcosa. Poi un angelo intima ad Abramo di non stendere la mano contro il figlio e accade che si rinsaldi il suo legame con il generale mediante il suo rapporto dinamico con Dio, nel ritorno, non il suo rapporto con Dio attraverso il suo legame statico con il generale.
Abramo accetta la rassegnazione dello svuotamento della propria volontà e diviene quindi sé stesso riconquistando ciò che aveva perso. Così può riavere anche Isacco. Nella strada del ritorno il cielo non indugia più nei colori. Il tacere di Abramo è tempo celeste, sapienza che è sempre equilibrio nell’amministrazione della parola. Silenzio è condizione necessaria in alcuni momenti, per chi sa di non poter rendere conto ai più e nemmeno a sé stesso sino in fondo. Se le parole sono tutto ciò che abbiamo, non sono però tutto e il comprenderlo è ciò che fa viva la differenza tra un affabulatore e un uomo, perché proprio a chi è data facoltà di parola e pensiero spetta l’autorità di sospenderli.
Credo che Abramo confidi nell’impossibilità di un dio assoluto e annichilente, insensibile all’evento che ha concesso: la nascita e la presenza di Isacco. Il figlio di Sara e Abramo, così tanto atteso, è davvero unico e l’unicità della sua vicenda non può che respingere la possibilità di azzerarsi attraverso un sacrificio che sovrapporrebbe, confondendoli, assoluto e bestialità. Abramo infine comprende come nessuna persona, nessuna differenza umana irriducibile possa essere sacrificata per uno scopo più grande di quello che essa porta già con sé. Nemmeno Dio potrebbe chiedere questo.