La scrittura di Hermann Broch non abbisogna di presentazioni, per imponenza e portato. Questo scrittore austriaco, maestro di una intera generazione e mondo, mantiene ancora fecondamente la forza della sua opera, in ogni suo angolo. Ne fanno fede questi testi poetici editi sotto il nome La verità solo nella forma per De piante editore nella traduzione, frutto di anni, di Vito Punzi.
In Broch la poesia appare come un luogo conoscitivo, o come Occasio, la dea dalla chioma velata che cerca di afferrare se stessa. La parola svela la grammatica nuda, costituiva, degli spazi, delle materie, della dynamis tra soggetto e oggetto, nella forma. L’idea ricorrente della distanza, dello spazio, del silenzio, l’immagine che immagina se stessa nel suo farsi, scopre e sorprende: dove la poesia ricorre al simbolico, al metaforico o all’immagine per sintetizzare, Broch pare invertire la rotta pur mantenendo un grande senso dell’unità movente che lo ispira, così come una florida capacità di evocazione naturale e visionaria. Captare sensorialmente la forma è il fine.
La poesia sembra divenire allora una sorta di particolare forma di analitica trascendentale in versi. Se in poesia non si dà una conoscenza verginale delle cosalità del reale, non si rende nemmeno il senso del suo stesso fare. Broch stesso avverte “Sprofonda metafora dopo metafora/ resta l’arido irreale/ invernale incandescente/ il mistero”. La simultaneità di una mathesis della somiglianza oramai infeconda, opposta al fuoco rivelatore dell’enigma a cui il “compito del poeta” assolve.
Vi sono immagini ricorrenti, come degli amuleti fedeli, per citarne alcune: il volto, il prato, l’anima, il fluttuare, lo spazio universale, il rapporto tra immagini e mondo. La traduzione di Punzi riesce a restituire con una mimesi attenta la letteralità di “innumerevoli manifestazioni della forma”: c’è una zona dove “la ridente proporzione del cenno fluttante” trova il suo stare, dove le immagini diventano accessi stessi del pensiero formale, della struttura, dell’idea che si manifesta nella sua terrestrità. Queste manifestazioni sorgono, a volte come semicelate, dentro l’ordito di una immagine, di un dettaglio, di una occasione che Broch isola e addensa. Broch non esercita come alla maniera dei poeti antichi, si pensi ai latini, il verso come dimensione didascalica di una tesi filosofica o di una arte o scienza (si pensi a Lucrezio o al Virgilio delle Georgiche).
Piuttosto il pensiero musaico, intendendo con questa espressione quella pratica per cui la poesia è memoria sensoriale del genere umano nelle sue stratificazioni più abissali, riesce a presagire i pericoli del tempo, il senso totale del reale e quasi a rendersi vaticinio dell’avvenire. Come in ogni poeta autentico, la presenza del tempo, delle cose, della storia, viene indagata mai con un senso di mero descrittivismo, dove un ordito si svela, per Broch conta indagare la tessitura, che ci fa eco, cenno, che a volte si manifesta come illusione, o come luce solare che investe qualsiasi cosa.
La verità solo nella forma è un’opera che si condensa in un monito, a cui attenersi: “Le nostre labbra devono tornare a baciare/ ciò che i concetti ci assassinano sempre di nuovo.”